Aggiornamento: 27 apr 2021
<La pazienza> scrisse Ambrose Bierce nel Dizionario del diavolo(1906), <è una forma minore di disperazione, travestita da virtù>. Nel corso dei secoli, l’India ha visto grandi quantità di questa pretesa virtù. C’è stata una straordinaria tolleranza delle disuguaglianze, della stratificazione e delle divisioni di casta, tutte accettate come elementi presumibilmente necessari dell’ordine sociale.
C’è stata la silenziosa rassegnazione delle donne indiane alla mancanza di libertà imposta loro in ragione di una pretesa necessità biologica o sociale. C’è stata una paziente sopportazione della mancanza di accountability e della proliferazione della corruzione, considerate conseguenze inevitabili della cupidigia della natura umana. C’è stata una sottomissione adattiva dei derelitti della società alla miseria, allo sfruttamento e all’oltraggio senza fine, visti come inevitabili complementi di uno stabile ordine economico.
La pazienza non ha contribuito a porre rimedio a nessuna di queste iniquità e ingiustizie; e non si è dimostrata remunerativa in nessun altro modo facilmente riconoscibile. Viceversa, cambiamenti positivi si sono spesso verificati e hanno dato un po’ di liberazione quando il rimedio ai mali è stato ricercato attivamente e perseguito con energia. Perfino l’oppressione del colonialismo britannico terminò soltanto quando l’impazienza politica indiana generò movimenti popolari che resero il Raj ingovernabile.
L’India contemporanea non soffre di mancanza di rimostranze e proteste. Tuttavia il peso politico e il potere degli indiani relativamente privilegiati, anche di quelli che non sono realmente ricchi ma il cui reddito e livello di vita li pongono ben al di sopra dell’indiano medio, tendono a fungere da barriera all’attenzione che la voce dei veramente poveri può effettivamente ottenere. Il risultato, abbastanza spesso, è l’esclusione pressoché totale di molti problemi politici della maggioranza delle persone fortemente deprivate.
La scarsa considerazione dell’istruzione scolastica, della sanità, della sicurezza sociale e delle questioni collegate nella pianificazione indiana è un aspetto di questa situazione generale. Ma le distorsioni delle politiche pubbliche in favore degli interessi privilegiati assumono anche molte altre forme, tra cui l’incuria nei confronti dell’agricoltura e dello sviluppo rurale, la tolleranza del saccheggio ambientale a scopo di lucro privato e la pioggia di sussidi pubblici, impliciti ed espliciti, sui gruppi privilegiati.
La grande divisione sociale porta con sé profonde disparità nella voce e nel potere dei differenti gruppi, e inoltre contribuisce a oscurare l’intensità della deprivazione dei derelitti della società, tramite distorsioni nella copertura dei mezzi di comunicazione e nelle discussioni pubbliche, che sembrano essenzialmente provvedere agli interessi e agli impegni di una vasta- e vivace- popolazione di persone non così deprivate.
Il velo dell’oscurità è stato così efficace nell’occultare l’incidenza e l’intensità della sofferenza estrema che la stessa idea di gente comune- l’oggetto del sostegno dichiarato da parte dei leader politici- ha subito un’ampia ridefinizione. I relativamente benestanti che però sono meno benestanti dei veramente ricchi tendono assai spesso a vedersi come <gente comune>(aam admi, in hindi) la cui immagine di sé li colloca nella posizione di perdenti della società: ma questa può essere una descrizione appropriata soltanto se li si paragona agli strati più alti dei veramente abbienti. I diseredati sono riluttanti a levarsi in piedi e a esigere una rapida e definitiva eliminazione della loro eccezionale deprivazione. Le lamentele dei <relativamente privilegiati ma non privilegiatissimi>, che costituiscono la categoria della cosiddetta <gente comune>, vengono efficacemente sciorinate, e le posizioni di questo gruppo facilmente mobilitate si accaparrano la parte del leone del sostegno dei maggiori partiti politici, ma ciò è in netto contrasto con l’attenzione relativamente scarsa prestata alle massicce- e inveterate- deprivazioni dei disgraziati della società indiana.
E tuttavia la politica democratica del paese offre le opportunità perché gli indiani più diseredati <riflettano sulla propria forza> ed esigano che alle disuguaglianze capitali che rovinano la vita di così tante persone nel paese si ponga rapidamente rimedio. Ciò, ovviamente, è in parte una questione di organizzazione politica, ma un ruolo importante l’ha anche una lucida visione della vasta portata e della natura peculiare della deprivazione e della disuguaglianza in India. Questa è sicuramente una delle principali sfide che l’India ha di fronte oggi.
Personalmente ritengo che sarebbe di fondamentale importanza che gli indiani residenti all’estero, che hanno ricevuto la grande opportunità di migliorare la propria condizione di vita, si prendano carico della responsabilità di guidare gli indiani diseredati verso la <consapevolezza della loro forza, dei loro diritti>; c’è bisogno che le persone che hanno ricevuto una possibilità di uscire dalla povertà assoluta smettano, per prime, di essere egoiste e cerchino di essere una guida e una speranza per coloro che un tempo erano i loro <compagni>.
Nel tentativo di farmi carico di questa responsabilità, negli ultimi 8 anni, agli studi e al lavoro in Italia ho integrato le mie esperienze sul campo in India. Durante il primo ritorno in India il mio obiettivo era quello di trovare me stesso, attraverso una lunga introspezione interiore, e di avere la conferma che i ricordi che avevo erano reali e non frutto della mia immaginazione di bambino. Durante i viaggi successivi l’obiettivo principale è sempre stato quello di comprendere al meglio la realtà sociale dell’India, per riuscire a trovare una strategia di aiuto adeguata per i veri “disgraziati” della società indiana.
Adesso, dopo quasi un anno di permanenza “forzata” in Italia, mi ritrovo di nuovo ad affrontare il viaggio per l’India e mi ritrovo, un’altra volta, a sperimentare un grande mix di emozioni interiori. In ogni viaggio nuovo c’è un accumulo sempre maggiore di emozioni poiché riaffiorano sempre anche quelle dei viaggi precedenti, specialmente del primo.
Mi ritrovo, così, a riflettere su queste parole di Ambrose Bierce secondo cui la “pazienza non è una virtù, bensì una forma minore di disperazione”. Personalmente ritengo che questa riflessione sia veritiera ma solo in parte; infatti, la pazienza può essere considerata una forma di disperazione solo se è fine a sé stessa e diventa una scusa dell’inazione.
Penso, invece, che la Pazienza sia davvero una grande virtù se è finalizzata all’attesa del momento giusto per l’Azione. Infatti, seppur vero che tanti cambiamenti nella storia dell’umanità sono avvenuti grazie all’”impazienza” e all’azione energica di chi soffriva, bisogna considerare che queste azioni energiche sono sempre state una conseguenza della paziente sopportazione della sofferenza per decenni. In questi decenni di paziente sopportazione del dolore, le persone riflettevano sulla propria condizione ed elaboravano strategie per uscire dalla loro condizione di “disperati”. Bisogna, inoltre, ragionare sul fatto che tutte le forme di oppressione sono state debellate soltanto nel momento in cui diversi “privilegiati” hanno fatto proprie le sofferenze dei “disperati”, sacrificando la propria posizione sociale, le proprie ricchezze e in molti casi le proprie vite.
Le donne hanno iniziato ad emanciparsi anche grazie all’aiuto di uomini che le rispettavano e soffrivano per il non riconoscimento dei loro diritti; i plebei hanno iniziato ad uscire dalla loro situazione di schiavitù anche e soprattutto grazie ad alcuni nobili e a molti borghesi che hanno fatto proprie le loro sofferenze; molti ebrei si sono salvati, durante il periodo fascio-nazista, grazie all’aiuto di alcuni privilegiati che hanno avuto la lucidità di riconoscere la pericolosità di un’ideologia così cieca, mantenendo vivo dentro di sé l’umana compassione.
Noi privilegiati non dobbiamo biasimare la pazienza dei “disperati” bensì dobbiamo fare propria la loro sofferenza e guidare la loro pazienza, attraverso un’attenta riflessione e pianificazione, verso un’azione volta al ribaltamento della loro situazione.
La pazienza diventa davvero una grande virtù quando anche i privilegiati riescono a fare proprie le sofferenze dei “disperati” e ad essere perseveranti nella sopportazione di questa sofferenza, riuscendo ad agire non d’impulso ma con un’attenta pianificazione strategica.
A voi che siete arrivati fino a qua, chiedo: la pazienza è davvero la virtù dei più forti?